SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
SENTENZA 08-07-2005, n. 14390
Svolgimento del processo
1. L’ispettore della Polizia di Stato, signor Massimo T., ricorreva davanti al Garante per la protezione dei dati personali (d’ora in avanti, semplicemente, Autorità Garante o Garante) sostenendo che il dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno avrebbe acquisito e trattato dati sensibili che lo riguardavano, nell’ambito di un procedimento disciplinare, in asserita violazione delle disposizioni della legge n. 675 del 1996.
In particolare, l’interessato affermava che la raccolta iniziale dei dati sarebbe stata effettuata da parte di alcuni suoi colleghi, i quali avrebbero agito al di fuori del servizio ed in veste “privata” (un tale, sovrintendente L., in rapporto di amicizia con il ricorrente, trovandosi occasionalmente nella sua abitazione, avrebbe notato accanto al computer alcuni indirizzi internet, che avrebbe successivamente utilizzato:
a) per accedere a “siti della rete” ove erano rilevabili annunci erotici, corredati da immagini di tipo osceno o pornografico, fra le quali nonostante l’alterazione del viso del soggetto ritratto – anche quelle attribuibili al signor T. – aventi contenuto omosessuale e feticista -;
b) per segnalare il fatto ai superiori, i quali – a loro volta – avrebbero promosso un procedimento disciplinare sfociato in proposte di trasferimento e di sospensione dal servizio).
Il ricorrente chiedeva al garante che fosse accertata l’illiceità della condotta dell’Amministrazione e delle singole persone fisiche che avrebbero agito “al di fuori dell’attività di servizio”, disponendo il blocco e la distruzione dei dati trattati.
L’Amministrazione faceva rilevare che i propri dipendenti devono sempre osservare i doveri inerenti alle loro funzioni, anche al di fuori del servizio (art. 68 l. n. 121 del 1981) e che tutti gli appartenenti alla Polizia di Stato hanno il dovere di attenersi al segreto d’ufficio (art. 34 d.P.R. n. 782 del 1985 e 16, ult. co., d.P.R. n. 737 del 1981).
1.1. Il ricorso veniva respinto dall’Autorità Garante, in base alle seguenti considerazioni.
Innanzitutto, non si sarebbero verificate ipotesi di “comunicazione” a terzi o di “diffusione” dei dati (art. 1, comma 2, lett. g e h), posto che il trattamento si sarebbe svolto del tutto all’interno della struttura organizzativa e avrebbe coinvolto solo organi ed uffici dell’Amministrazione.
Inoltre, esso trattamento sarebbe risultato conforme al dettato normativo (art. 27, comma 1 e 22, commi 3 e 3-bis, come modificato dal D. Lgs. n. 135 del 1999) ed, in particolare, alla previsione di cui all’art. 68 della legge n. 121 del 1981, secondo la quale “Gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della P.S. sono comunque tenuti, anche fuori dal servizio, ad osservare i doveri inerenti alla loro funzione”. L’attività di acquisizione dei dati, posta in essere da un collega, avrebbe costituito una modalità possibile di accertamento e di verifica dei comportamenti ritenuti contrastanticon i doveri d’ufficio, derivanti dall’appartenenza alla Polizia di Stato. L’attività di trattamento sarebbe stata consentita proprio perchè il decreto legislativo n. 135 del 1999 avrebbe espressamente ammesso la finalità di tipo disciplinare fra quelle ritenute di rilevante interesse pubblico. Nè essa sarebbe stata svolta, secondo i fatti emersi, in modo eccedente o non pertinente.
2. Avverso tale decreto, il signor T., ha proposto opposizione, ai sensi dell’art. 29 della legge n. 675 del 1996, davanti al Tribunale di Roma, notificando il ricorso sia al garante, sìa al Ministero dell’Interno. Secondo l’interessato il decreto non avrebbe specificato perchè il trattamento sarebbe stato imputato all’Amministrazione, anzichè al sovrintendente Locateli, dati i comportamenti tenuti da quest’ultimo (che avrebbe estratto i dati da una propria postazione privata, ecc), Inoltre, nella specie, sarebbe difettato sia il consenso dell’interessato sia l’esattezza dei dati trattati.
Il Garante avrebbe eluso tali censure, limitandosi a dichiarare legittima la condotta dell’Amministrazione, e respinto la richiesta di blocco e distruzione dei dati, acquisiti in modo illegittimo (cioè via privata, al di fuori dell’esercizio delle funzioni proprie dell’attività istituzionale di polizia). In particolare, il Garante avrebbe eluso la censura relativa alla violazione dell’art. 1, comma 2, lett. g ed h della legge n. 675 del 1996, atteso che il sovrintendente Locateli avrebbe dato corso ad una diffusione dei dati all’interno degli uffici dell’Amministrazione, normalmente affollati dal personale. In tal modo il Garante avrebbe deciso la soccombenza dell’interesse della riservatezza rispetto all’interesse della pubblica amministrazione. Ma il trattamento dei dati, anche per le finalità consentite, avrebbe bisogno di essere autorizzato dal Garante, ai sensi dell’art. 9 D. Lgs. n. 135 del 1999, modificativo dell’art. 22 della legge n. 675 del 1996. Infine, sarebbe erronea la decisione nella parte in cui essa ha consentito l’acquisizione dei dati al di fuori del servizio, in violazione dell’art. 28 D.P.R. n. 782 del 1985, disposizione che limita l’obbligo di relazionare al responsabile dell’ufficio ai soli fatti “di particolare rilievo avvenuti durante l’espletamento del servizio”.
Al contrario, i dati acquisiti dal sovrintendente L. costituirebbero esclusivamente una forma di delazione, perchè gli stessi sarebbero stati privi di rilevanza penale o amministrativa, anche in considerazione che, attenendo gli stessi alla sfera sessuale, avrebbero necessitato del consenso dell’interessato e della preventiva autorizzazione del Garante. il ricorrente, pertanto, chiedeva la disapplicazione o l’annullamento del provvedimento del Garante, il blocco e la distruzione dei dati sensibili illegittimamente acquisiti.
3. Il tribunale di Roma respingeva l’opposizione, osservando che sarebbe stato proprio il ricorrente, con l’inserimento della proprio foto sul sito internet, a effettuare la diffusione dei dati personali a lui riconducibili (come da riconoscimento avvenuto ad opera dei colleghi); nè il rilevamento e l’acquisizione dei dati, avvenuti in sede privata, e la loro trasmissione, per via gerarchica, sarebbe contraria al dettato normativo.
4. Avverso tale sentenza ricorre per Cassazione il signor T., con ricorso affidato a quattro motivi. L’Amministrazione, resiste con controricorso. Il Garante non ha svolto difese.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo di ricorso (con il quale deduce la nullità del decreto emesso dal Tribunale di Roma: violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.) il ricorrente lamenta che il provvedimento impugnato, avente natura di “una vera e propria sentenza”, è privo di ogni esposizione, anche concisa, dello svolgimento del processo e dei motivi di fatto e in diritto della decisione.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso (con il quale deduce la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.) il ricorrente si duole della mancanza, nel provvedimento del Tribunale, di una motivazione sufficiente e adeguata, resa senza un puntuale riesame di tutti i motivi posti dal ricorrente a base del ricorso, se si eccettuano quelli relativi alle modalità di acquisizione dei dati personali, da agenti in veste privata, e alla loro scorretta “diffusione”. Lamenta altresì che la motivazione sia stata data per relationem rispetto al provvedimento del Garante.
1.3. e 1.4 Con il terzo e quarto motivo di ricorso (con i quali deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 9, 11 e 22 della legge n. 675 del 1996, e dell’art. 68 della legge n. 121 del 1981, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) il ricorrente sostiene che il provvedimento del Tribunale sarebbe affetto da un cospicuo numero di errori, perchè esso avrebbe:
a) dato per scontato che, nella specie, l'”interessato” al trattamento dei dati, reperiti sul sito internet, sia proprio il signor T.;
b) considerato “titolare” del trattamento l’Amministrazione anzichè il sovrintendente L., che aveva provveduto ad acquisire i dati;
c) omesso di rilevare la mancanza del consenso scritto dell’interessato al trattamento;
d) omesso di accertare le scorrette modalità di raccolta dei dati, in violazione dell’art. 9 della legge n. 675;
e) disatteso la necessità di individuare le attività che perseguono rilevanti finalità di interesse pubblico per le quali è autorizzato il trattamento;
f) disatteso, una volta ammessa la finalità dell’interesse pubblico ex lege, la necessità di identificare i tipi di dati e delle operazioni, pertinenti e necessarie, in relazione a tale finalità pubblica;
g) considerato legittimo il comportamento (scorretto) dell’Amministrazione, la quale può e deve prendere in considerazione solo i fatti rilevanti, rilevati durante l’espletamento del servizio dei suoi agenti.
2. Il ricorso è parzialmente fondato e va accolto, nei sensi di cui in motivazione.
2.1. Il primo motivo di ricorso, riguardante alcuni aspetti della motivazione del decreto impugnato, deve essere respinto.
L’art. 29 della legge n. 675 del 1996, applicabile al caso ratione temporis, stabilisce che, avverso il provvedimento espresso o il rigetto tacito adottato dal Garante, il Tribunale provvede nei modi di cui agli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile e che, contro tale decreto, è ammesso unicamente il ricorso per Cassazione. il provvedimento impugnato in cassazione, pronunciato all’esito della Camera di consiglio, ha la “forma di decreto motivato”, non quella della sentenza, come erroneamente assume 11 ricorrente.
E, a tal proposito, è insegnamento di questa Corte, varie volte espresso, a cui questa pronuncia intende dare continuità, che “la motivazione del decreto, ove necessaria, come nel caso in cui tale provvedimento sia emesso per definire un procedimento in camera diconsiglio, non deve essere ampia come quella della sentenza, nè succinta, come quella dell’ordinanza, ma può ben essere sommaria, nel senso che il giudice, senza ritrascriverli nel decreto, può limitarsi ad indicare quali fatti, tra quelli indicati nell’istanza che lo ha sollecitato, lo hanno convinto ad accordare il provvedimento richiesto” (per tutte, Cassazione n. 1049 del 1980).
Tanto ovviamente non significa che il giudice che pronuncia il decreto abbia il potere di considerare solo i motivi di doglianza che gli aggradano poichè, anch’egli, in obbedienza ai precetti costituzionali ed in particolare a quello sull’obbligo della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111, sesto comma, Cost.), deve mostrare (esplicitamente o implicitamente), nel decreto che si è reso impugnabile in Cassazione, di aver tenuto conto di tutte le doglianze che sono state proposte contro il provvedimento amministrativo (nella specie: del Garante) .
Infatti, il principio secondo il quale i provvedimenti aventi veste di sentenza possono contenere una motivazione concisa e non necessitante di espliciti riferimenti a tutte le argomentazioni, allegazioni e prospettazioni delle parti (che devono per implicito aversi per disattese se incompatibili con la soluzione giuridica adottata e l’iter argomentativo seguito) è applicabile, a fortiori, ai provvedimenti diversi dalle sentenze, ed in particolare ai decreti, la cui motivazione può essere sommaria; anche se il giudice, il quale può anche non trascrivere i fatti e limitarsi ad indicare gli elementi, fra quelli portati al suo giudizio (o che, comunque, possano incidere su di esso), che lo abbiano convinto ad assumere il provvedimento stesso, deve comunque, anche per implicito, dar prova di aver considerato tutta la materia controversa, infatti, nel caso che ci occupa, non è leso il principio (desumibile dalle norme di cui agli artt. 132, comma secondo, n. 4 cod. proc. civ. e 118 disp. att. stesso codice) secondo il quale, la mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa, ovvero la mancanza o l’estrema concisione della motivazione in diritto determinano la nullità della sentenza solo quando rendano impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cassazione, sent. 1944 del 2001), atteso che, il decreto oggetto di ricorso, mostra chiaramente quali siano state le sue rationes decidendi, anche se poi occorrerà passare al loro specifico esame.
2.2. Viene, peraltro, ancor prima delle singole censure, in rilievo altra questione di ordine generale, posta dall’ultimo profilo di censura, svolto con il secondo motivo di ricorso.
Con esso, il ricorrente censura il provvedimento del Tribunale perchè, nella parte in cui afferma “che le censure mosse al provvedimento opposto devono essere disattese, in quanto il garante ha esaminato tutti i motivi posti dal ricorrente a base del ricorso e la motivazione del rigetto appare pienamente condivisibile e meritevole di conferma”, presenta una motivazione per relationem al provvedimento del garante, che renderebbe nullo il decreto impugnato.
2.2.1. Questa parte della censura, che va respinta in via preliminare e generale, come si dirà in seguito, potrà trovare solo limitato accoglimento, in relazioni a specifiche doglianze che tengano presenti i principi più volte affermati da questa Corte, nell’ambito dei procedimenti in unico grado di merito, aventi ad oggetto comunque la cognizione piena dei fatti, sia pure filtrata attraverso l’impugnazione di un atto amministrativo (come accade, ad esempio, per l’impugnativa dei provvedimenti che irrogano le sanzioni amministrative).
La motivazione della sentenza per relationem è, infatti, ammissibile, dovendosi giudicare della sua completezza e logicità in base agli elementi contenuti nell’atto amministrativo, puntualmente individuato, al quale si opera il rinvio e che, proprio in ragione della relatio, diviene parte integrante dell’atto rinviante.
Ovviamente, la legittimità del provvedimento giurisdizionale, motivato per relationem al provvedimento amministrativo, riguarda solo quella parte di motivazione già espressa nel provvedimento richiamato ed impugnato, e cioè quella parte di essa che abbia già affrontato ed esaminato le questioni sollevate dal ricorrente in via amministrativa, e limitatamente ad esse, non pure riguardo alle questioni nuove, proposte per la prima volta con il ricorso giurisdizionale (non valendo qui i principi processuali propri del doppio grado di merito e dei limiti riguardo al novum in appello) e ai nuovi profili delle questioni già esaminate con il provvedimento amministrativo, ma non sufficientemente considerate nello stesso.
2.3. E’ alla luce di questa premessa che deve essere condotto l’esame dei restanti tre motivi di ricorso, che si devono esaminare congiuntamente, come prospettato dallo stesso ricorrente, il quale ha inteso dare a tutte le doglianze, per quanto articolate e involgenti più profili, una trattazione unitaria.
2.3.1. In particolare, il decreto impugnato, risulta censurato sotto una pluralità di profili, alcuni dei quali si rivelano inammissibili o del tutto infondati. Tali sono quelli relativi alla qualificazione del ricorrente quale interessato (lett. a) e dell’Amministrazione, che si sarebbe avvalsa dell’attività “privatistica” svolta da alcunidei suoi dipendenti, quali “titolare” del trattamento dei dati (lett. b, d e g).
2.3.1.1. A quest’ultimo proposito, il giudice del merito ha mostrato di condividere la posizione del Garante, e ha concluso che, il funzionario di polizia, pur avendo svolto la ricerca dei dati presso la propria abitazione, aveva poi seguito l’iter istituzionale, cosicchè le foto, apparse e “prelevate” nell’ambito della rete internet, erano state poi “trasmesse per via gerarchica”, a chi di competenza.
La censura a tale conclusione del giudice di merito è del tutto inammissibile in questa sede, comportando una ricostruzione dei fatti e una valutazione degli stessi che non può trovar luogo nel giudizio di legittimità. Nè il ricorrente ha indicato per quale ragione si sarebbe “reciso” il nesso organico e funzionale tra l’attività svolta dagli agenti che ebbero ad occuparsi del caso e l’amministrazione di appartenenza che, da parte sua, non solo ha preso in esame la documentazione trasmessa “per via gerarchica: come si è detto, ma ha anche convalidate” la legittimità dell’azione dei propri dipendenti, adottando, a carico dell’odierno ricorrente, i provvedimenti disciplinari di cui ci si lamenta, sia pure di riflesso, anche in questa sede.
2.3.1.2. Nella doglianza di cui alla lettera g), invero, ci si duole della violazione dell’art. 68 della legge n. 121 del 1981 e dell’art. 28 del d.P.R. n. 782 del 1985, in quanto si assume che il dovere degli agenti di riferire i fatti accaduti e percepiti dagli stessi non attenga a quelli emersi fuori del servizio e, nell’ambito opposto, riguardi soltanto i cd. “fatti rilevanti”. Ma tale doglianza è infondata.
Secondo l’interpretazione che delle leggi indicate ha in fatto la Cassazione nel suo magistero penale, “gli agenti e gli ufficiali della polizia, così come i carabinieri, sono da considerare in servizio permanente: nel senso che, anche nei periodi di permesso o di licenza, sono obbligati ad assumere l’esercizio attuale delle funzioni, allorchè se ne verifichino le condizioni di legge, a nulla rilevando la sussistenza di particolari rapporti di amicizia, parentela o altro con la parte offesa” (Cassazione penale, sent. n. 7075 del 1989) .
Si è, a tal proposito, operato la distinzione tra “la nozione di ‘servizio permanentè, e “quella diversa, di ‘esercizio delle funzionì”, implicando quest’ultima che il pubblico ufficiale può in ogni momento intervenire ed esercitare le sue funzioni (Cassazione penale, sentt. nn. 11928 del 1993 e 21730 del 2001).
Orbene, il provvedimento impugnato, anche attraverso la recezione della motivazione del Garante, ha pienamente risposto a tale doglianza, considerando legittimo il comportamento del sovrintendente L. e, poi, quello dell’altro suo collega che ebbe a trasmettere i dati acquisiti ai superiori gerarchici.
Nè può censurarsi, al riguardo, la qualificazione (tutta fattuale) circa il “particolare rilievo” dei fatti, oggetto di rapporto, atteso che, in astratto, tale nozione si riferisce sia ai fatti rilevanti sul piano penale sia a quelli suscettibile di rilievo amministrativo; e, del resto, in concreto, la valutazione di particolare rilevanza è stata già positivamente compiuta nella fase di merito, e tale conclusione, involgente valutazioni di merito, non è riesaminabile nel giudizio di legittimità.
2.3.1.2. Nella doglianza di cui alla lettera b, invece, si contesta che il ricorrente sia proprio la persona “interessata” al trattamento, con ciò volendosi dire che lo stesso disconosce comeriferibili alla sua persona quelle foto “aventi contenuto omosessuale e feticista”.
La censura al decreto impugnato riguarda propriamente la parte di esso ove afferma con certezza “che il T. abbia inserito nel sito internet una propria fotografia e altre nelle quali, benchè con il viso travisato, sarebbe stato ugualmente riconoscibile”, anche in ragione dello “pseudonimo Max 30”, adottato, e perciò si possa “affermare che sia stata effettuata proprio da lui la diffusione dei dati personali sensibili”. La conclusione del Tribunale, va esaminata insieme alla doglianza dal ricorrente, poichè essa costituisce l’antecedente logico della questione che si andrà a trattare appresso.
2.3.1.3. Perchè una persona assuma la qualità di “interessato” al trattamento dei dati personali è necessario che i dati di cui si controverta riguardino la persona fisica o la persona giuridica ol’ente o l’associazione che si dolga proprio del loro trattamento: cfr. l’art. 1 della legge n. 675 del 1996 (e, ora, l’art. 4 del cd. Codice della Privacy, di cui al D. Lgs. n. 196 del 2003).
La nozione di “interessato”, perciò, non suppone che i dati appartengano, con certezza, alla persona che si duole di quelle operazioni compiute su di essi, poichè ciò che rileva è la loro attribuzione o la loro esclusione a colui che, al riguardo, accampi un diritto (alla titolarità dei dati o alla estraneità degli stessi).
Infatti, questa Corte, ha già avuto modo di precisare che anche “l’inesatto trattamento di dati personali legittima l’interessato ad invocare, presso la competente autorità di garanzia, la tutela dicui agli artt. 1 e seguenti della legge n. 675 del 1996” (Cassazione, sent. n. 8889 del 2001, secondo la quale, la legge 675 del 1996 è funzionale, nelle sue linee generali, alla difesa della persona e dei suoi fondamentali diritti e tende ad impedire che l’uso, astrattamente legittimo, del dato personale avvenga con modalità tali da renderlo lesivo di essi.) (Nella specie, la ricorrente, dopo aver reiteratamente ed inutilmente richiesto al direttore di un quotidiano a diffusione nazionale di rettificare un dato personale ad essa relativo e riportato più volte in modo inesatto, per ottenere la rettifica si era rivolta al Garante, il quale aveva ordinato sia la cessazione del comportamento – in quanto illegittimo ai sensi della legge 675 del 1996 -, sia la rettifica della registrazione e del trattamento del dato personale de quo).
Pertanto, ha torto il ricorrente a credere che, per aver contestato l’attribuzione – alla sua persona – di quelle immagini, “aventi contenuto omosessuale e feticista”, egli si sia spogliato, per ciò stesso, della qualità di “interessato”. Proprio il fatto che egli intenda escludere l’attribuzione a sè di quei dati iconici fa sì che abbia assunto, a ragione, quella qualificazione e, in forza di essa, possa chiedere i provvedimenti del tipo di quelli da lui domandati al Garante ed al Tribunale (blocco del trattamento e distruzione dei dati).
Ma ha torto anche il Tribunale, laddove ha concluso per la piena trattabilità di quei dati solo perchè sarebbe stato proprio il ricorrente a diffonderli nell’ambito della rete internet. La pubblicità delle informazioni consentirebbe il loro libero uso.
2.3.1.4. Ma, in contrario, si osserva che questa Corte ha già avuto occasione e modi di affermare che “sia la legge n. 675 del 1996, sia il D.Lgs. n. 196 del 2003 (cosiddetto “codice della privacy”), hanno ad oggetto della tutela anche i dati già pubblici o pubblicati, poichè colui che compie operazioni di trattamento di tali informazioni, dal loro accostamento, comparazione, esame, analisi, congiunzione, rapporto od incrocio, può ricavare ulteriori informazioni e, quindi, un “valore aggiunto informativo”, non estraibile dai dati isolatamente considerati, potenzialmente lesivo della dignità dell’interessato (ai sensi degli artt. 3, primo comma, prima parte, e 2 della Costituzione), valore sommo a cui è ispirata la legislazione sul trattamento dei dati personali” (Corte di Cassazione, sez. 1, sent. n. 11864 del 2004).
Non è dunque la pubblicità in se del dato che ne consente il trattamento, ricavandosi da esso ulteriore valore informativo, ma la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge.
Nel caso di specie, perciò, occorreva passare a valutare l’esistenza dei presupposti normativi perchè il trattamento compiuto dall’Amministrazione dell’Interno potesse dirsi legittimo. Ciò che ha formato oggetto delle restanti ragioni di censure (lettere c, e, ed f) contenute nel ricorso e che devono essere esaminate congiuntamente.
2.4. Il ricorrente si duole, innanzitutto, del fatto che il trattamento dei dati sia avvenuto senza il suo consenso; in secondo luogo, che l’attività abbia avuto luogo senza che siano state enunciate le finalità di interesse pubblico; infine, che essa si sia svolta senza che siano stati identificati e resi pubblici i tipi di dati da trattare e le operazioni consentite. Tale complessiva doglianza, che è parzialmente fondata, impone l’accoglimento del ricorso in parte qua.
2.4.1. Premesso che nel caso in esame si controverte del trattamento di dati cd. supersensibili (riguardanti la salute e il sesso delle persone), al riguardo va operato il richiamo alla legge n. 675 del 1996, che è applicabile al caso di specie, ratione temporis, non già nella sua versione originaria, sebbene in quella modificata dal D. Lgs. n. 135 del 1999.
Tale composita disciplina, ancora la legittimità del trattamento dei dati sensibili (art. 22, comma 1), in linea generale, alla contestuale presenza del consenso scritto dell’interessato e all’autorizzazione del Garante.
Tuttavia, il comma 3 della stessa previsione di legge (quale risulta dall’addizione apportata dall’art. 5, comma 2, del D. Lgs. n. 135 del 1999), consente il trattamento da parte dei soggetti pubblici, “solo se autorizzato da espressa disposizione di legge, nella quale siano specificati i tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite”.
Presupposti che, secondo il ricorrente, difetterebbero nel caso in esame, senza che il Tribunale, nel richiamarsi alla motivazione adottata dal Garante, per relationem, l’abbia rilevato ed anzi avendo disatteso una sua specifica doglianza, pure ritualmente e tempestivamente avanzata.
2.4.2. La previsione del comma 3, novellato, dell’art. 22 della legge n. 675 deroga, per i soli “soggetti pubblici”, sia alla regola del consenso scritto, sia a quella della preventiva autorizzazione del Garante. Ma essa impone, che vi sia: i) una finalità di interesse pubblico; ii) una espressa disposizione di legge autorizzatoria; iii) una specificazione legislativa dei tipi di dati trattabili e delle operazioni eseguibili. Nel caso che ci occupa, la rilevante finalità di interesse pubblico, è stata, correttamente individuata nel Provvedimento del Garante, condiviso per relationem dal Tribunale, nella previsione dell’art. 9, comma 2, lett. g), del D. Lgs. n. 135 del 1999, il quale sussume sotto le attività di rilevante interesse quelle “dirette all’accertamento della responsabilità civile, disciplinare e contabile”, nell’ambito dei rapporti di lavoro.
Tale disciplina legislativa riguardante i rapporti di lavoro, però, non indica i tipi di dati, fra quelli appartenenti a quelli cd. sensibili, riportati nel comma 1 dell’art. 22, che – nell’ambito di tali finalità – possono essere trattati e le operazioni eseguibili, al riguardo.
2.4.3. I commi 3 e 3-bis dell’art. 22, più volte menzionato, però consentono ai soggetti pubblici, che intendano compiere tali trattamenti, di: “richiedere al Garante, nelle more della specificazione legislativa, l’individuazione delle attività, fra quelle demandate ai medesimi soggetti dalla legge, che perseguono rilevanti finalità di interesse pubblico e per le quali è conseguentemente autorizzato, ai sensi del comma 2, il trattamento dei dati indicati al comma 1” (comma 3, ult. parte); e “nei casi in cui (…) non sono specificati i tipi di dati e le operazioni eseguibili, i soggetti pubblici (…) identificano e rendono pubblici, secondo i rispettivi ordinamenti, i tipi di dati e di operazioni, strettamente pertinenti e necessari in relazione alle finalità perseguite nei singoli casi, aggiornando tale identificazione periodicamente“; insomma, ove non sia stata la legge a specificare tipi di dati sensibili ed operazioni eseguibili su di essi, possono e debbono farlo i “soggetti pubblici autorizzati al trattamento” o, su loro richiesta, l’Autorità Garante.
La particolare natura di tali dati, e specialmente quelli appartenenti alla species dei supersensibili, che investe la parte più intima della persona nella sua corporeità e nelle sue convinzioni psicologiche più riservate, che riceve una tutela rafforzata proprio in ragione dei valori costituzionali posti a loro presidio (artt. 2 e 3 Cost.), è oggetto di una protezione rafforzata, che si esplicita nelle garanzie poste anche riguardo al trattamento operato dai “soggetti pubblici”. Queste, infatti, esigono il rispetto di un modulo procedimentale, corrispondente a quello stabilito dalla legge del 1996, così come integrato nel 1999.
2.4.4. A tale riguardo il ricorrente ha avanzato le sue doglianze al Tribunale, lamentando la mancanza dei presupposti di legalità del trattamento, anche con specifico riguardo all’autorizzazione fornita dalla legge o accordata dall’Autorità Garante, e contestando le affermazioni contenute nel provvedimento di quest’ultima.
A tali doglianze, che non trovano risposta neppure in quella parte della motivazione del provvedimento amministrativo, richiamato per relationem dal decreto, il Tribunale ha omesso ogni risposta e, perciò, ai fini del ricorso, anche ogni esame.
La qualcosa rende il provvedimento giurisdizionale impugnato invalido e perciò, denunciandosene il vizio, con l’odierno ricorso, da cassare con rinvio ad altra sezione dello stesso organo giurisdizionale di merito, per un nuovo esame della controversia in ordine a tale complessiva omessa pronuncia, oltre che per regolare le spese di questa fase.
3. In conclusione, il giudice del rinvio dovrà valutare sel’Amministrazione dell’Interno, in relazione al caso in esame, era legittimata al trattamento dei dati personali supersensibili del ricorrente, riguardanti i suoi presunti gusti, atteggiamenti e comportamenti sessuali, in relazione alla finalità disciplinare, nell’ambito del rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 22 della legge n. 675 del 1996, come novellato dal D. Lgs. n. 135 del 1999.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo e accoglie, per il resto, il ricorso, per quanto di ragione. Cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, ad altra sezione del Tribunale di Roma.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, dai magistrati sopraindicati, il 8 giugno 2005.