Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono definitivamente pronunciate sul delicato tema delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni tra presenti (cd. intercettazioni ambientali) eseguite per mezzo dell’installazione di un “captatore informatico” in dispositivi elettronici portatili in uso all’indagato. La questione, già oggetto di approfondimento in un precedente ARTICOLO, è stata rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza del 10 marzo – 6 aprile 2016, n. 13884.
Il 1° luglio la Suprema Corte ha pubblicato, con sentenza n. 26889, le motivazioni poste a fondamento della propria decisione, affermando i seguenti principi di diritto:
“- deve escludersi la possibilità di compiere intercettazioni nei luoghi indicati dall’art. 614 cod. pen., con il mezzo indicato in precedenza, al di fuori della disciplina derogatoria per la criminalità organizzata di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, convertito in legge n. 203 del 1991, non potendosi prevedere, all’atto dell’autorizzazione, i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto, con conseguente impossibilità di effettuare un adeguato controllo circa l’effettivo rispetto del presupposto, previsto dall’art. 266, comma 2, cod. proc. pen., che in detto luogo «si stia svolgendo l’attività criminosa»;
– è invece consentita la captazione nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., pure se non singolarmente individuati e se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, per i procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, secondo la previsione dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991;
– per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. nonché quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.
Nelle sue motivazioni, contenute in oltre trenta pagine, la Corte ha escluso che si possano effettuare intercettazioni mediante “virus informatico” al di fuori della disciplina derogatoria di cui all’art. 13 d.l. n. 152 del 1991, ossia quando si tratti di procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata. La normativa sulle intercettazioni tra presenti, infatti, richiede necessariamente che nei luoghi di privata dimora investiti dalle captazioni si stia svolgendo l’attività criminosa; tale verifica deve essere effettuata preliminarmente dal giudice, il quale però, trattandosi di una forma di intercettazione “itinerante”, non può conoscere e predeterminare tutti i luoghi in cui verrà collocato il dispositivo infettato dal “virus captatore”.
Per queste ragioni, la Cassazione ha ammesso l’uso del captatore informatico solo per i procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, secondo la previsione dell’art. 13 d.l. n. 152 del 1991. In questo caso, infatti, la norma non prevede che il giudice effettui il controllo preventivo sulla sussistenza del requisito previsto dall’art. 266, comma 2, c.p.p., ossia che nei luoghi di privata dimora ove avviene l’intercettazione si stia svolgendo l’attività criminosa.
Alla luce delle argomentazioni espresse nella sentenza, appare evidente come la Corte di Cassazione abbia, di fatto, posto un vero e proprio limite all’utilizzo del captatore informatico. Tuttavia, in attesa di un eventuale intervento in materia da parte del nostro legislatore, è lecito chiedersi se nell’ambito di un procedimento relativo ai reati previsti dall’art. 266, comma 1, c.p.p. e, quindi, al di fuori della disciplina derogatoria in materia di criminalità organizzata, sia consentito l’utilizzo di un “captatore informatico”, appositamente programmato, in grado di attivarsi solo in luoghi predeterminati (evidentemente diversi da quelli di “privata dimora”), individuati ad esempio con il sistema GPS, in grado quindi di intercettare solamente in luoghi prestabiliti. Tale tecnologia applicata al captatore informatico consentirebbe di intercettare nel pieno rispetto dei limiti posti dal codice di procedura penale; in questa ipotesi, così come per le intercettazioni “tradizionali” (così le definisce la Suprema Corte nella sentenza in commento), l‘indicazione del luogo (individuato tramite le coordinate GPS) diventerebbe un requisito essenziale per l’individuazione dei limiti entro i quali l’agente intrusore può attivarsi.