SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
Sentenza 21 – 28 febbraio 2013, n. 9726
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE ROBERTO Giovanni – Presidente –
Dott. CORTESE Arturo – Consigliere –
Dott. LANZA Luigi – Consigliere –
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere –
Dott. APRILE Ercole – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1. C.P., nato a (OMISSIS);
2. M.M., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 27/01/2012 della Corte di appello di Torino;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale FODARONI Maria Giuseppina, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito per gli imputati l’avv. Stefanetti Bruno per C.P., e, in sostituzione dell’avv. Marco Ferrero e dell’avv. Marisa Zariani per Manuel Meneghin, che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza sopra Indicata la Corte di appello di Torino riformava parzialmente la pronuncia di primo grado del 17/12/2007 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verbania, assolvendo i due imputati dal reato loro ascritto al capo D) e rideterminando la pena, pure sostituita con la corrispondente pena pecuniaria, e confermava nel resto la medesima pronuncia con la quale C.P. e M.M. erano stati condannati in relazione al reato di cui all’art. 110, art. 81, comma 2, art. 326 cod. pen., comma 3, secondo periodo (capo C), per avere, in concorso tra loro, tra il 30/06/2005 ed il 06/05/2006, in qualità rispettivamente di vice sovrintendente e di assistente della polizia di Stato, in servizio presso il settore polizia di frontiera di Domodossola, al fine di procurare a sè o ad altri (in particolare alla cittadina ucraina L.P.) un ingiusto profitto non patrimoniale, consistito nell’utilizzare schede telefoniche per l’attivazione delle quali la cittadina straniera non avrebbe dovuto esporsi personalmente, rischiando di essere espulsa dal territorio dello Stato, posto in essere le condotte di cui al capo A), concretizzatesi nell’appropriazione momentanea delle fotocopie di passaporti e dei codici fiscali di vari cittadini ucraini, fermati alla frontiera, e nella loro utilizzazione per l’attivazione di varie schede telefoniche.
Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali avessero provato la responsabilità dei due prevenuti in ordine al reato loro ascritto al capo C), dato che gli stessi avevano fatto uso di dati personali di cittadini stranieri di cui erano venuti a conoscenza a causa e nell’esercizio delle loro funzioni, dati che sarebbero dovuti rimanere segreti, attenendo a persone che erano state fermate per accertamenti, dati contenuti nei passaporti che gli imputati avevano fotocopiato ed utilizzato per ottenere da un gestore di telefonia il rilascio di schede telefoniche da impiegare senza che sarebbe stato poi possibile risalire al reale utilizzatore.
2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i due imputati, con atti sottoscritti dai loro rispettivi difensori di fiducia, formulando una serie di doglianze in gran parte comuni, dunque esaminabili congiuntamente.
In particolare tanto il C. quanto il M. hanno dedotto i seguenti cinque motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione all’art. 649 cod. proc. pen., per avere la Corte di appello confermato la condanna degli imputati in relazione al suddetto reato loro contestato al capo C) dell’imputazione, benchè lo stesso, per la descrizione delle relative condotte illecite, facesse rinvio al capo A) dell’imputazione, contenente la descrizione del reato di cui all’art. 314 cod. pen., dal quale i prevenuti sono stati mandati assolti.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 521, 522 e 604 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale condannato i due imputati in relazione al reato di cui all’art. 326 cod. pen., sostenendo essere stata provata la rivelazione, da parte del C. e del M., di dati di soggetti stranieri da loro fermati per accertamenti e che sarebbero dovuti rimanere segreti, condotta questa di cui non vi è traccia nè nel capo di imputazione C) relativo a quell’addebito, nè in quello richiamato di cui al già menzionato capo A).
2.3. Violazione di legge, in relazione all’art. 326 cod. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità, per avere la Corte torinese ingiustificatamente ritenuto che i ricorrenti, facendo uso delle fotocopie di quei passaporti, si fossero avvalsi di notizie coperte dal segreto, e per avere omesso di fornire adeguata motivazione alla specifica doglianza che, con l’atto di appello, era stata formulata su tale specifico punto.
2.4. Violazione di legge, in relazione all’art. 49 cod. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità, per avere la Corte di merito omesso di motivare sulle ragioni per le quali la condotta astrattamente riferibile agli imputati potesse ritenersi lesiva dell’interesse giuridico del corretto funzionamento della pubblica amministrazione, protetto dalla norma penale contestata.
2.5. Violazione di legge, in relazione all’art. 326 cod. pen., art. 521 e art. 522 cod. proc. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità, per avere la Corte torinese erroneamente confermato la condanna di primo grado senza spiegare da quali elementi potesse desumersi la prova dell’esistenza del necessario elemento psicologico del reato; per avere omesso di fornire adeguata motivazione circa la specifica doglianza che, con l’atto di appello, era stata formulata su tale specifico punto; e, comunque, per avere fatto riferimento ad una finalità delle iniziative delittuose poste in essere dai prevenuti, quella di servirsi di schede telefoniche impedendo di risalire al loro reale utilizzatone, della quale non vi era traccia nel capo di imputazione oggetto di specifica contestazione.
Il C. ha, altresì, dedotto i seguenti ulteriori tre motivi.
2.6. Violazione di legge, in relazione all’art. 326 cod. pen., per avere la Corte distrettuale erroneamente ritenuto la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato contestato, benchè i dati identificativi dei cittadini stranieri riportati sui passaporti asseritamente utilizzati in copia dagli imputati, non sarebbero propriamente una “notizia”, da intendersi come fatto storico o avvenimento che vede coinvolta la pubblica amministrazione.
2.7. Violazione di legge, in relazione all’art. 326 cod. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità, per avere la Corte piemontese omesso del tutto di motivare in ordine alle ragioni per le quali il profitto non patrimoniale che gli imputati avevano inteso procurare a sè o ad altro potesse essere qualificato come “ingiusto”, così come espressamente richiesto dalla norma incriminatrice oggetto di addebito.
2.8. Violazione di legge, in relazione all’art. 81 cod. pen. e art. 597 cod. proc. pen., per avere la Corte sabauda rideterminato la pena inflitta al C., in ragione dell’intervenuta assoluzione da altro reato, calcolando la continuazione interna relativa ai vari episodi oggetto di contestazione nel capo C) dell’imputazione, senza che tale aumento fosse stato operato dal giudice di prima grado e, dunque, in assenza di impugnazione del P.M., in violazione del divieto di reformatio in peius.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che i ricorsi siano fondati nei limiti e con gli effetti di seguito precisati.
2. I primi due motivi, formulati (sia pur con talune differenziazioni) in entrambi i ricorsi, sono infondati.
Nell’originario capo d’imputazione C) il reato di cui all’art. 326 cod. pen., comma 3, ultima parte oggetto della sentenza oggi in esame, era stato contestato agli imputati C. e M. con un rinvio, per le descrizione concreta delle condotte in cui si era sostanziato l’illecito, ai capi B) e C) dell’imputazione, e con tale addebito i prevenuti sono stati giudicati in primo grado. Nel corso del giudizio di secondo grado tale evidente errore contenuto nel capo C), nella parte in cui esso operava un inutile rinvio allo stesso capo C), è stato emendato dalla Corte di appello – senza che le parti nulla osservassero – con il più corretto richiamo, anzichè al capo C), al capo A) contenente l’imputazione relativa al reato di cui all’art. 314 cod. pen., dal quale gli imputati erano stati mandati assolti: ma, per un secondo palese errore, la Corte territoriale ha omesso di riproporre il richiamo al capo B) che, contenente altro addebito riferito all’art. 326 cod. pen., finiva per giustificare e dare anch’esso sostanza al successivo capo C), soprattutto sottolineando che i dati identificativi, di cui i pubblici ufficiali si erano avvalsi, avevano ad oggetto “notizie di ufficio che avrebbero dovuto rimanere segrete”.
Tuttavia, tale seconda imprecisione non ha affatto inciso sui diritti di difesa degli imputati, i quali hanno avuto modo di fare valere le loro ragioni, nel contraddittorio delle parti, senza alcuna sostanziale incertezza e senza alcuna reale limitazione delle loro facoltà e dei loro diritti processuali, essendo risultato chiaro che la condotta oggetto di contestazione al capo C) dovesse essere integrata dal riferimento ai due precedenti, e strettamente connessi, capi d’imputazione A) e B).
In questo senso, per un verso deve escludersi che la sentenza di secondo grado, nella parte in cui ha confermato la pronuncia di condanna di primo grado con riferimento al reato contestato al capo A), che già conteneva il corretto richiamo al precedente reato del capo B), abbia violato la regola della necessaria corrispondenza con l’imputazione: e ciò perchè, come ripetutamente sostenuto nella giurisprudenza di legittimità, il principio di correlazione tra accusa e sentenza ha lo scopo di garantire il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, l’esercizio effettivo dei diritto di difesa dell’imputato, sicchè non è configurabile una sua violazione in astratto, prescindendo dalla natura dell’addebito specificamente formulato nell’imputazione e dalle possibilità di difesa che all’imputato sono state concretamente offerte dal reale sviluppo della dialettica processuale (così, tra le altre, Sez. 5, n. 2074/09 del 25/11/2008, Fioravanti, Rv. 242351; conf. Sez. 3, n. 9916/10 del 12/11/2009, Scarfò, Rv. 246226). Per altro verso, nella fattispecie va negata la sussistenza della lamentata violazione del divieto di un secondo giudizio, per il fatto di essere stati gli imputati assolti dal reato di peculato loro ascritto al capo A), il cui contenuto descrittivo era richiamato dal capo C) avente ad oggetto il reato di utilizzazione di segreti di ufficio, per il quale sono stati condannati: ed infatti, l’art. 649 cod. proc. pen. è inapplicabile al caso in esame, non solamente per un dato formale, e cioè perchè al momento della pronuncia della condanna non era ancora divenuta irrevocabile la decisione assolutoria avente ad oggetto il supposto medesimo fatto, ma soprattutto perchè agli odierni ricorrenti erano stati contestati due reati per i quali non poneva una questione di concorso apparente di norme, trattandosi di illeciti in concorso tra loro, aventi ad oggetto fatti ontologicamente diversi perchè relativi a condotte solo in parte sovrapponibili, avendo riguardato il peculato propriamente una condotta appropriativa, e quello di utilizzazione di notizie segrete del capo C) la diversa condotta di impiego di quei dati.
3. Entrambi i ricorrenti si sono, poi, doluti dell’erronea applicazione dell’art. 326 cod. pen. in quanto le fotocopie dei documenti di identificazione degli stranieri, che essi avevano fermato alla frontiera, non integrerebbero propriamente gli estremi di una notizia coperta dal segreto di ufficio.
Tale motivo è manifestamente infondato in quanto i ricorrenti hanno confuso il concetto di segretezza dell’ufficio con quello, diverso e di più specifica portata, di segretezza degli atti di indagine di cui all’art. 329 cod. proc. pen., tenuto conto che l’attività posta in essere dai due imputati non risulta essere stata propriamente quella di ufficiali di polizia giudiziaria, posto che la loro attività non atteneva alle indagini di un procedimento penale, bensì alle iniziative proprie spettanti alla polizia amministrativa.
In tale ottica, l’opzione esegetica privilegiata dalla Corte di merito, nella quale non è ravvisabile alcuna carenza di motivazione, appare conforme al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio da parte degli impiegati dello Stato, il contenuto dell’obbligo la cui violazione è sanzionata dall’art. 326 c.p., deve essere desunto dal nuovo testo del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15, come sostituito dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 28, recante nuove norme in terna di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Disposizione dalla quale emerge che il divieto di divulgazione (e di utilizzo) comprende non soltanto informazioni sottratte all’accesso, ma anche, nell’ambito delle notizie accessibili, quelle informazioni che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle, in quanto non titolari dei prescritti requisiti. Pertanto, in tale contesto normativo, la nozione di “notizie d’ufficio, le quali debbono rimanere segrete” assume non soltanto il significato di informazione sottratta alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quello di informazione per la quale la diffusione (pur prevista in un momento successivo) sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui viene indebitamente diffusa ovvero utilizzata, perchè svelata a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste (così, tra le diverse, Sez. 6, n. 11001 del 26/02/2009, P.M. in proc. Richero, Rv. 243578; Sez. 6, n. 30148 del 23/04/2007, P.M. in proc. Lazzaro, Rv. 237605; Sez. 6, n. 7483 del 04/03/1998, P.G. in proc. Balestri G ed altro, Rv. 211244).
Nè è configurabile, nella fattispecie, il diverso e meno grave reato previsto dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167 (contenente il “Codice in materia di protezione dei dati personali”), che ha ad oggetto non la rivelazione o l’utilizzazione di notizie segrete, bensì il più generale trattamento di dati personali in violazione delle prescrizioni fissate dal citato D.Lgs., trattandosi di fattispecie incriminatrice residuale non applicabile al caso in esame, come si desume facilmente dalla presenza, nella parte iniziale di entrambi i commi dell’art. 167, della clausola di riserva “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, espressione del criterio di consunzione.
4. Manifestamente infondato è il quarto motivo, presente in entrambi i ricorsi in esame, con il quale è stata prospettata l’applicazione dell’art. 49 cod. pen., comma 2, per essere state le condotte accertate sostanzialmente inoffensive, in quanto inidonee a ledere l’interesse giuridico protetto.
Con motivazione sintetica ma congrua, che non può essere censurata in questa sede, la Corte di appello di Torino ha spiegato come la divulgazione o l’utilizzazione di dati sensibili personali, che sostanziano le notizie acquisite per ragioni dell’ufficio, non possono considerarsi comportamenti innocui o futili, dunque inoffensivi. E ciò vale tanto più ove, come nel caso di specie è accaduto, la condotta non sia stata quella di mera rivelazione, bensì quella di utilizzazione di segreti dell’ufficio: perchè se, nel primo caso, quello della mera rilevazione di notizie di ufficio, l’interesse giuridico protetto è rappresentato esclusivamente dal buon funzionamento dell’amministrazione attraverso il dovere di fedeltà del funzionario, nel secondo caso, quello della utilizzazione illegittima di quelle notizie (fattispecie introdotta dalla L. n. 86 del 1990), la sfera di operatività della norma incriminatrice è stata ampliata, risultando tutelato anche il bene pubblico alla par condicio civium, vale a dire l’interesse a che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio non tragga, dall’esercizio delle sue funzioni e dalla connessa conoscenza di notizie apprese in ragioni del suo ufficio, un’indebito vantaggio rispetto agli altri cittadini. Bene giuridico, questo, che deve reputarsi essere stato messo concretamente in pericolo dalle condotte degli odierni ricorrenti consistite, come si è già avuto modo di sottolineare, dall’utilizzazione di dati di identificazione di stranieri, da loro acquisiti nel corso di operazione di polizia di frontiera, per poter acquistare, intestandole ad ignari soggetti, molteplici schede telefoniche.
5. Manifestamente infondato è, altresì, l’ultimo dei motivi proposti in comune da entrambi i ricorrenti, i quali si sono lamentati del fatto che, senza offrire alcuna motivazione circa la corrispondente doglianza formulata con gli atti di appello, la Corte territoriale avrebbe omesso di indicare gli elementi di prova circa l’esistenza del richiesto elemento psicologico oppure avrebbero fatto riferimento ad una finalità dei comportamenti addebitati diversa da quella oggetto di contestazione.
La sentenza gravata non è censurabile per una mancanza di motivazione su tale specifico punto, in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il provvedimento impugnato non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ed a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (così Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso, Rv. 250900; Sez. 2, n. 13151 del 10/11/2000, Gianfreda, Rv. 218590).
D’Altro canto, nel caso di specie la Corte distrettuale ha implicitamente chiarito come il C. ed il M. avessero agito con il dolo specifico di utilizzare dati identificativi dei cittadini stranieri, di cui erano venuti in possesso a causa e nell’esercizio delle loro funzioni, allo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale consistito nell’intestare agli ignari titolari dei relativi documenti di identità delle schede telefoniche, che altri avrebbero poi concretamente impiegato: come avvenuto per il caso accertato della cittadina straniera P., cui i prevenuti avevano consegnato una di quelle schede al fine di permetterle di effettuare comunicazioni telefoniche senza correre il rischio, in occasione della relativa attivazione, di essere identificata come straniera irregolare e, dunque, di essere espulsa dal territorio dello Stato.
Sotto questo punto di vista deve escludersi la configurabilità di alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza per il fatto che la Corte di appello di Torino abbia esplicitato, nella motivazione del provvedimento gravato, che lo scopo ultimo dei due imputati fosse stato quello di fare uso o di permettere che altri facessero uso di quelle schede telefoniche, in maniera tale da impedire che potesse essere identificato il reale utilizzatore:
finalità, questa, che è irrilevante non fosse stata espressamente riportata nel capo d’imputazione ascritto ai prevenuti, trattandosi di aspetto fattuale ulteriore rispetto a quello necessario per ritenere integrata la sussistenza del necessario, sopra indicato, elemento psicologico del reato.
6. Manifestamente infondato è il primo dei motivi proposti con il ricorso presentato nell’interesse del solo imputato C., con il quale è stata prospettata l’erronea applicazione dell’art. 326 cod. pen. in quanto le fotocopie dei documenti di identificazione degli stranieri, che egli aveva fermato alla frontiera, non integrerebbero propriamente gli estremi di una notizia dell’ufficio, nozione questa asseritamente riferibile solamente ai “fatti storici che vedono coinvolta la pubblica amministrazione”.
Tale doglianza è palesemente priva di pregio, in quanto è evidente che con il termine “notizie di ufficio” il legislatore abbia fatto riferimento a qualsivoglia dato informativo ovvero oggetto di conoscenza che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia appreso o conseguito per ragioni del suo ufficio: tale dovendosi, quindi, ritenere i dati identificativi dei cittadini stranieri, riportati nei passaporti, da cui i due odierni imputati avevano estratto le fotocopie, in seguito impiegate per poter attivare schede telefoniche intestate a soggetti del tutto ignari, da usare o da far usare senza che se ne potesse in alcun modo identificare il reale utilizzatore.
Quanto alla lamentata omessa motivazione in ordine alla insussistenza dell’elemento soggettivo del reato per il quale vi è stata condanna, è sufficiente qui ribadire come, in generale, non sussista alcun vizio di motivazione laddove la sentenza impugnata, pur senza effettuare un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e senza prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, abbia un contenuto che attesti che i giudici di merito hanno compiuto una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, illustrando, in maniera logica ed adeguata, le ragioni del proprio convincimento. Come nel caso di specie è accaduto per le ragioni sopra esposte.
7. Infondato è il secondo dei motivi formulati nell’interesse del solo C.
Anche a non voler aderire all’autorevole opinione dottrinale secondo la quale sarebbe del tutto pleonastico l’aggettivo “ingiusto” impiegato dal legislatore codicistico per qualificare il profitto non patrimoniale che il pubblico funzionario; avrebbe avuto di mira nell’utilizzare le notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete, ed a voler, dunque, privilegiare la tesi contraria secondo cui sarebbe ingiusto il profitto non patrimoniale che sia in sè contra ius, non vi è chi non veda come, nella fattispecie – per gli argomenti correttamente riportati nella motivazione della sentenza impugnata – fosse certamente tale il profitto non patrimoniale perseguito dal prevenuto, interessato all’acquisto di schede telefoniche da intestare, in violazione della normativa vigente in materia, a soggetti ignari e diversi dai reali utilizzatori dei relativi numeri di telefono.
8. Fondato è l’ultimo dei motivi del ricorso del C., con effetti che vanno estesi anche in favore del M.
La Corte di appello di Torino, nel rideterminare la pena da irrogare agii imputati in relazione all’unico reato, quello del capo C), per il quale era stata confermata la condanna, in conseguenza dell’intervenuta assoluzione da uno dei reati, quello del capo D), precedentemente posto in continuazione, ha tenuto conto della riduzione di un terzo per le già riconosciute circostanze attenuanti generiche ed ha operato un ulteriore aumento per la cd.
“continuazione internà contestata nel medesimo capo C) (v. pag. 19 sent. impugn.): aumento del quale non vi è traccia esplicita nella motivazione della sentenza di primo grado, in cui il riferimento all’art. 81 cod. pen. pare essere stato effettuato solamente in relazione alla continuazione con il reato del capo B) (v. pag. 20 sent. primo grado).
Risulta violato il principio previsto dall’art. 597 cod. proc. pen., per il quale il divieto di reformatio in peius, nel caso della sentenza di primo grado impugnata sul punto dal solo imputato, riguarda non solo il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena.
La sentenza gravata deve essere, dunque, annullata senza rinvio ai sensi dell’art. 620 cod. proc. pen., lett. l) con eliminazione dell’operato aumento di pena per la “continuazione interna”, pari a giorni venti di reclusione (mesi uno di reclusione, ridotta di un terzo ex art. 442 cod. proc. pen.), con rideterminazione della pena finale nei termini di cui al dispositivo che segue.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena che ridetermina, escluso l’aumento per la continuazione, in mesi cinque giorni dieci di reclusione per ciascun ricorrente.
Rigetta nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2013